venerdì 1 novembre 2013

No limits, come Manolo negli anni '90

Chi non ricorda la famosissima pubblicità degli anni Novanta del cronografo Sector? Era bellissima, con in primo piano il freeclimber spagnolo Manolo, mentre affronta a mani nude la montagna, senza corde di sicurezza, un nono grado di difficoltà, armato solo del suo orologio? Io si, e ho provato a ricordare se per caso mi fossi mai trovato ad affrontare i miei limiti, armato esclusivamente di un accessorio griffato. Ebbene è successo, solo che non mi trovavo sulle alpi svizzere, ma su un campetto in leggera pendenza della litoranea sud di Salerno, brutto e spelacchiato, e non avevo con me alcun accessorio griffato, se si escludono le mie fide Tepa Sport nere con le strisce bianche, antesignane dello "Swoosh" della Nike. Credo fosse il periodo immediatamente successivo alla chiusura del campetto di Torre Angellara. Il nuovo campetto era stato scelto con cura. Anche questo era praticamente sul mare, senza spogliatoio, con un fondo misto di sabbia e fango e ciuffi d'erba di varia consistenza e altezza, distribuiti a casaccio. Rigorosamente privo di righe bianche (su questo eravamo intransigenti, dei veri talebani), non era nemmeno recintato e aveva come unico punto di riferimento due porte in legno, con tanto di reti da pesca attaccate alla meglio, posizionate alle due estremità del campo. Un simile gioiello non passava inosservato e per giocarci occorreva avvertire il proprietario, che lo concedeva gratuitamente a patto di essere incluso in una delle due squadre. Lo ricordo ancora: sessantenne e stempiato, con pochi capelli bianchi, basso e un po' tracagnotto, veniva sul campo con una polo sdrucita e multicolore, e al posto del pantaloncino i jeans, con i risvolti più volte ripiegati che lasciavano intravedere dei calzini in coordinato con la polo e scarpe da tennis color fango. Un vero spettacolo nello spettacolo. Si muoveva poco, ma aveva un discreto tocco di palla e quando gli capitava di fornire l'assist al marcatore di turno, dopo il goal gli correva incontro gridando:"Hai visto? Ti ho servito a puntino!" E lo ripeteva fino a quando non veniva gratificato almeno di un sorriso di complicità. È su quel campetto che io ho provato a superare i miei limiti, quelli fisici, e non mi è più capitato di ripetere l'esperienza. La mia squadra vinceva, mi sentivo bene e correvo sul campo avanti e indietro senza badare al dispendio di energie. Ero convinto, ingenuamente, che fosse tutta una questione di volontà. Volevo provare a me stesso che se avessi voluto, avrei potuto continuare a scattare all'infinito, o almeno fino alla fine della partita. Male che va - pensai - mi sentirò semplicemente più stanco. Quindi mi imposi di scattare e rientrare, senza mai recuperare, senza fermarmi a ricaricare le pile. Stava andando tutto bene, quando all'improvviso accadde l'inaspettato. Fu come se qualcuno avesse girato un interruttore, premuto un bottone, e la luce si spense. Il mio corpo letteralmente smise di funzionare e io mi accasciai durante la corsa. Le gambe cedettero, prive di forza, e non c'era verso di farle muovere. Rimasi a terra per diversi minuti spaventato e sorpreso. I miei compagni mi chiedevano cosa avessi e se mi fossi fatto male, ma io non riuscivo a spiegare. Mi rimisi in piedi a fatica e la paura di non potermi muovere di nuovo mi frenava, anche quando si presentava una buona occasione per far goal. Non avevo dosato lo sforzo, avevo dato tutto e la mia "ubris" era stata punita. La partita terminò e io rimasi per parecchio tempo fermo in silenzio, pensoso. Da allora non mi è più capitato niente di simile, ho imparato a dosare lo sforzo, anche in altri ambiti, ma, chissà per quale motivo, non ho mai considerato la cosa come una evoluzione positiva. Non sono più tornato a giocare sul quel campetto. Oggi è diventato un parcheggio.



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