Quando ero piccolo ricordo che cambiare le regole era...la regola!
Un gruppo di bambini si riuniva in un cortile, di solito con un pallone, e si stabilivano le regole del gioco. Il pallone non poteva essere preso con le mani, se tocca il muro e torna in campo allora vale, se va oltre la recinzione allora va rimesso in gioco, chi arriva per primo a dieci vince. Poteva succedere, però, che una delle squadre riuscisse ad interpretare meglio le regole stabilite. Per esempio, uno dei giocatori poteva usare il muro come sponda per "scartare" l'avversario o per passare il pallone ad un proprio compagno al di la dei difensori avversari - in mezzo al "traffico" (come direbbe Dan Peterson). In questi casi capitava che uno dei giocatori della squadra avversaria in difficoltà fermasse il gioco e dichiarasse solennemente di voler cambiare la regola scomoda. Seguivano ampie discussioni e grandi litigate a squarciagola, dalle quali usciva vincitore il più prepotente o il proprietario del pallone, che minacciava di andar via con l'attrezzo se non fosse stato accontentato. Nove volte su dieci, però, la squadra che imponeva il cambio della regola continuava a perdere inesorabilmente, mentre l'altra, sull'onda dell'entusiasmo acquisito, continuava a giocare e a vincere.
Questo è il paragone che mi viene in mente quando parliamo di "cambiareparadigma", rifiutare il PIL come unità di misura del benessere di un paese, di rinegoziare il debito. Siamo convinti di aver trovato le regole giuste e di essere in grado, con quelle, di giocare una nuova partita, di diventare solo per questo, di colpo, una squadra vincente.
Non è così che funziona, secondo me.
Il problema non sta nella regole ma nella squadra.
Diciamoci le cose come stanno: come squadra/paese siamo in netta difficoltà. Nel dopoguerra abbiamo raggiunto picchi di produttività tali da far impallidire i cinesi di oggi e i giapponesi degli anni '70 e '80. Abbiamo avuto imprenditori come Adriano Olivetti, Luisa Spagnoli, Agnelli, Mattei. Abbiamo mandato, primi in europa e terzi al mondo, un satellite nello spazio. Abbiamo inventato il "moplen" (la plastica) che è valso a Giulio Natta il premio Nobel per la chimica nel 1963 e prima ancora avevamo regalato agli USA e al mondo un genio quale Enrico Fermi. Di tutta quella gloria oggi sopravvive ben poco e la squadra che abbiamo oggi a stento si salverebbe in serie C, mentre noi vorremmo vincesse il mondiale.
Questo è il vero problema: non sappiamo giocare con le regole del mercato globale. Le abbiamo accettate, ma non abbiamo adeguato il nostro apparato produttivo, fatto di piccole e medie imprese non in rete tra loro o di grandi imprese sottocapitalizzate. Abbiamo un mercato del lavoro rigido a causa di sindacati non più adeguati e soprattutto una burocrazia marcia che impedisce qualunque evoluzione positiva e di cui persino il potere politico è succube.
La soluzione? Accettare la realtà dei fatti e giocare onestamente il nostro campionato, risalendo le categorie con pazienza e con una squadra giovane, sostenuta da una tifoseria appassionata, anche quando perde. In termini meno calcistici occorrerebbe prendere atto della nostra subalternità economica, investire con coraggio in formazione e ricerca, eliminare monopoli e potentati pubblici e privati e avere pazienza. Quando avremo imparato a giocare la partita globale, allora si potremo decidere di cambiare le regole, non prima, non adesso.
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