Se chiedete a un ragazzo di vent'anni oggi che cos'è la Naja vi risponderà che non lo sa. E' un termine di cui non ci si ricorda più, ma per la nostra generazione e per quelle che l'hanno preceduta era un vero e proprio incubo. I racconti dei nostri padri e dei nostri fratelli e amici più grandi, infatti, descrivevano la Naja, il servizio militare obbligatorio, come un periodo di sofferenza e privazione. Nel migliore dei casi sarebbe stato "tempo perso", un anno trascorso in una sperduta caserma, quando lo si sarebbe potuto impiegare in modo più "utile" lavorando, studiando....
Vent'anni fa anche io, con questo carico di pregiudizi sono entrato in caserma e, devo essere sincero, all'inizio sembrava che i miei peggiori incubi si stessero avverando. Spogliarsi degli abiti civili, vestire la divisa e cominciare l'addestramento non fu facile, ma quella vecchia caserma aveva un che di familiare, di bonario:sembrava che mi sussurrasse di stare tranquillo, che l'anno sarebbe passato e che, alla fine, lo avrei addirittura rimpianto.
Non è facile cambiare vita, orari, amicizie, stare lontano da casa, e per molti miei compagni era la prima volta. Non era facile ricevere ordini né impartirli, ma si impara. E abbiamo imparato molto. Abbiamo imparato cosa sia la responsabilità, cosa significa lavorare insieme, diventare persone sulle quali gli altri possano sempre contare, in caserma, in addestramento, in servizio e nella vita. Ricordo un caporale istruttore che pur di non venir meno al suo giuramento rifiutò il congedo prima del termine: gli avevano diagnosticato un varicocele (una banale ernia) e si preparavano a rispedirlo a casa, ma lui aveva capito quanto importante fosse il suo compito, e, soprattutto, aveva compreso che se avesse mollato in quella circostanza, lo avrebbe rifatto ancora e ancora, molte, troppe altre volte nella vita. E infatti rifiutò il congedo anticipato. Quel caporale aveva capito di dover scegliere che tipo di persona voleva diventare e oggi, sono sicuro, è una persona migliore, grazie al 225°.
Per chi è rimasto in forza dopo l'addestramento quella caserma è diventata casa, il quadro permanente semplicemente una famiglia. Certo, come succede in tutte le famiglie del mondo, non mancano le incomprensioni e i litigi, ma questo fa parte dell'esperienza umana. Tuttavia, credo di poter dire a nome di tutti i miei commilitoni che alla fine dell'anno, con la quarta stella rossa sul basco, tutto era dimenticato e tutti ci siamo ritrovati ad ascoltare l'ultima tromba, l'ultimo silenzio fuori ordinanza con una lacrima di commozione.
Cosa mi resta del 225°? Tantissimo. Innanzitutto gli amici di allora, che ancora oggi sento e frequento e che chiamo fratelli. Rimane il ricordo indelebile del mio caporale istruttore, dei miei tenenti e del mio Comandante, che oggi ritrovo, ma che in realtà non ho mai perduto. Rimane il ricordo di una caserma un po' in declino, ma ricca di storia e di orgoglio, oggi sede di una istituzione di grande cultura, ma che continua a sussurrarmi le stesse parole di allora: "Va tutto bene, stai tranquillo, passerà..."
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