martedì 11 febbraio 2014

Io sto con Rinaudo

Giuseppe Rossi è un gran bel giocatore. Segna e fa segnare, gioca in nazionale e quando subisce un infortunio il mondo del calcio si ferma col fiato sospeso, in attesa che i medici emettano la loro sentenza. Questo perché Rossi ha subito ben tre infortuni consecutivi ai legamenti dello stesso ginocchio. Perciò, quando lunedì, giorno della befana, A.D. 2014, ha subito l'ennesima botta, sempre allo stesso ginocchio, tutti abbiamo pensato che quell'uomo non fosse sfortunato, ma fosse l'incarnazione stessa della sfortuna. Autore del fattaccio: Leandro Rinaudo. E mentre i tifosi, me compreso, inviavano valanghe di auguri allo sfortunato campione, gli stessi tifosi, escluso il sottoscritto, inviavano valanghe di insulti al fabbro che aveva osato ferirlo. Oggi, a freddo, sento di essere molto vicino al buon Lendro, se non altro perché io ho fatto la stessa cosa: ho scapezzato il ginocchio di un amico. Il mio amico non ha il talento di Rossi e ha fatto tutt'altra carriera, ma il mio rimorso non è meno amaro. Giocavamo su un campetto infame, a Salerno, il cosiddetto "Arechi", ma non lo stadio...
Era un campaccio in cemento crepato, situato in mezzo a due "montagne", sopra all'alveo di un fiumiciattolo tombato. Il rumore del fiume impediva ai giocatori di ascoltarsi vicendevolmente e l'umidità era costantemente sopra i valori normali, anche d'estate. Su quel campetto giocavamo il mercoledì pomeriggio, per motivi pratici. Il giovedì mattina, infatti, era il giorno libero dell'insegnate di latino e greco e noi consideravamo festivo il pomeriggio del giorno precedente, senza compiti per casa da fare (ci perdonino le prof. di inglese e matematica). La partita, quindi, tra spensierati compagni di scuola, era tutt'altro che "tirata". Si trattava per lo più di una sgambata in allegria. In questo clima di festa, un pallone vagante capitò dalle parti del mio amico Gianluca. Lui si trovava di spalle e proteggeva il pallone, io cercai di portarglielo via, nemmeno con troppa insistenza. Non so come, ma il mio tentativo lo sbilanciò e il suo ginocchio cedette. Si ritrovò per terra dolorante e io sul momento nemmeno mi accorsi di quello che era successo. Dovemmo correre in ospedale - non ricordo come ci arrivammo - e lì ci diedero la brutta notizia: il ginocchio era andato. Io ero mortificato, Gianluca abbattuto, suo fratello, assente al momento del sinistro, incazzato contro l'anonimo autore del fattaccio, la bestia assetata di sangue che si era avventata contro Gianluca. Poi seppe che la bestia ero io è fece una parziale marcia indietro, ma senza grande convinzione. Quindi, io adesso so cosa deve aver provato Leandro Rinaudo e lo compatisco. Per la verità la mia consolazione, a tanti anni di distanza, è che sapevo con certezza che il calcio non sarebbe mai stata la carriera cui Gianluca era destinato, ma non credo che avesse bisogno del mio incoraggiamento per decidere in tal senso. Leandro, invece, eterna promessa mai sbocciata, non ha nemmeno questa consolazione e sono sicuro che freme all'idea che la sua carriera, un giorno, possa essere ricordata solo per il fallo che impedì al campione di andare al mondiale, o perché passò dal Napoli alla Juventus per una cifra spropositata, per poi trascorrere l'anno tra panchina (poca) e tribuna (tanta) a causa degli infortuni o, ancora per essere sceso in campo complessivamente sei volte in sei anni di serie A tra Juventus, Napoli e Novara. 
Leandro e io. Incompiuti e talentuosi, inconsapevoli interruttori di carriere altrui.
Non biasimateci, ve lo giuriamo: non l'abbiamo fatto apposta...

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