Può la vita di una persona essere paragonata ad una lunga partita di pallone? E' davvero possibile usare la metafora calcistica per spiegare tutti i "fatti della vita"? Io cerco una chiave, uno spartito entro il quale raccontare semplici fatti della mia misera esistenza e, magari, comunicare qualche pensiero di senso compiuto. Per una spiegazione più esauriente vi rimando al post "Benvenuti!" e mi auguro di trovare lungo il cammino tanti compagni di viaggio. Buona lettura
lunedì 29 aprile 2013
Il FESAMiC
Cosa significhi di preciso non lo so. Quello che so è che il Fesamic è il nome di un torneo folle cui ho partecipato anni fa. Iniziò come una sfida senza regole tre contro tre, davanti ad un portone, per poi "evolversi" in un torneo con tutti i crismi, anche se l'arbitraggio era ancora affidato alla buona volontà del buontempone di turno. Io partecipai alla prima edizione "adulta" e non immaginavo certo che sarebbe diventato il mio torneo, il torneo perfetto. Erano i primi anni di università e mi sentivo forte, fisicamente ed emotivamente al culmine. Quando si trattò di scegliere la squadra decisi di andare sul sicuro e chiamai i miei ex compagni del liceo. In porta l'unica eccezione: Raffaele, "parente acquisito" in quanto fidanzato storico di una mia compagna di classe. Si giocava sul campetto dell'isola Verde, un piccolo complesso turistico che ancora esiste alla foce del fiume Picentino. Al torneo partecipavano alcuni giocatori molto forti e quindi non avevo grandi speranze. In ogni caso arrivammo in semifinale. Di quella partita un solo ricordo. Eravamo pari, forse zero a zero e avevamo contenuto a malapena gli avversari per quasi tutta la partita. Il loro attaccante ci aveva provato continuamente e sembrava sul punto di segnare da un momento all'altro. In questi casi ti affidi ai segni del destino. E infatti, il destino bussò. Eravamo in attacco e perdemmo palla. Ci fu un lancio lungo e il loro attaccante stoppò la palla, puntando verso la nostra porta. Solo un difensore, il mio amico Luca, si frapponeva tra l'attaccante e la porta e io smisi di respirare. Finta a destra e pallone a sinistra, sembrava fatta, quando ecco spuntare il piede galeotto di Luca, un piede uscito da chissà dove. L'occasione sfumò e noi prendemmo coraggio, quanto basta per segnare un golletto galeotto. E fu finale. Ora, i precedenti non erano a mio favore: fino ad allora avevo all'attivo soltanto finali perse e secondi o terzi posti. Tutte partite onorevoli e ben giocate, ma nessun picco, nessuna coppa del vincitore, cosa avrebbe potuto cambiare la tradizione? Il giorno della finale ero nervoso, quasi rassegnato. Un perfetto decubetiniano, pronto a stringere la mano al vincitore, "contento" della prestazione, di aver partecipato e basta. E infatti la partita sembrava andare esattamente nella direzione prevista. Dopo un tempo eravamo sotto 2 a 1, anche se un goal avversario era stato viziato da una carica su Raffaele, che peraltro stava giocando un gran torneo. A quel punto scattò in me un sentimento strano, un click che non ho mai più risentito. Decisi che non poteva finire così e che dovevo fare qualcosa. Funzionò. Non so come, ne perché, ma diventai immarcabile. Sinistro, destro, di testa: nel giro di pochi minuti non solo pareggiammo, ma passammo anche in vantaggio. Stavamo vincendo e loro sembravano impotenti. Finì 5 a 2. Incredibile, avevo vinto il primo torneo di calcio della mia vita! Due i ricordi di quella serata. Io che mi tengo stretto il trofeo come se avessi vinto il mondiale e il portiere della squadra avversaria che piange per la partita persa, o forse perché ha perso la madre da poco e non regge all'emozione. Quel trofeo fa ancora bella mostra di se sugli scaffali di casa mia, quel portiere è ancora mio amico.
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