Può la vita di una persona essere paragonata ad una lunga partita di pallone? E' davvero possibile usare la metafora calcistica per spiegare tutti i "fatti della vita"? Io cerco una chiave, uno spartito entro il quale raccontare semplici fatti della mia misera esistenza e, magari, comunicare qualche pensiero di senso compiuto. Per una spiegazione più esauriente vi rimando al post "Benvenuti!" e mi auguro di trovare lungo il cammino tanti compagni di viaggio. Buona lettura
mercoledì 26 giugno 2013
Partita con il figlioccio
"Prof., perché non viene a giocare con noi una di queste domeniche?" La proposta era partita da uno dei miei studenti, un quattordicenne devastato dall'acne. Inizialmente mi era sembrata una idea balzana. Non che temessi di far brutta figura, per carità, semplicemente non mi andava di passare per quello che si mette a giocare con i ragazzini solo per dimostrare che può ancora farcela. Tutta via la tentazione era forte, soprattutto perché si giocava su un campetto in terra e avrei potuto usare di nuovo le mie scarpette con i tacchetti. Occorreva trovare una formula che facesse quadrare il tutto, una potente scusa che mi consentisse di accettare l'invito senza apparire ridicolo. Il pensiero si era insinuato in me come un tarlo e una mattina ebbi l'illuminazione: avrei portato con me il mio figlioccio Francesco e io avrei giocato con lui per "compensare" la sua giovane età (11 anni, più bassa rispetto alla media degli altri giocatori). Anche a Francesco sarebbe sicuramente piaciuta l'idea: lui adora il calcio, ma ha poche occasioni per praticarlo e avrebbe accettato di giocare con persone più grandi sapendo che in campo ci sarei stato anch'io. L'unica cosa che rimaneva da fare era far passare l'evento come qualcosa organizzato per lui e non per me. È così feci: convinsi Francesco e dissi ai miei studenti che mi sarei "sacrificato" per lui. Appuntamento su un campetto parrocchiale la domenica successiva. Mi presentai con il pargolo e con le mie datate scarpette in perfetto orario. Il campetto aveva le due porte e niente di più. Niente linee, niente bandierine, ma una bella voragine fangosa al centro che faceva da contrasto con la giungla ai lati e sugli angoli. In sostanza era perfetto. Sul campo praticamente tutti i miei studenti e altri che conoscevo perché frequentavano la stessa scuola. In porta per la mia squadra un cinquantenne calvo e cicciottello, con un curioso accento toscano che avrebbe pesantemente bestemmiato per l'intera partita, in continuazione, al punto che pensavo che il prete sarebbe uscito dalla chiesa da un momento all'altro e ci avrebbe scomunicato per direttissima. Sistemato Francesco al centro dell'attacco e dopo essermi assicurato l'appoggio di un paio di terzini forti e volenterosi, iniziai la partita come un vecchio libero stile anni '50. Mi muovevo in un raggio di non più di venti metri, limitandomi ad appoggiare la palla sapientemente all'uno o all'altro terzino. Ogni tanto un dribbling, una sgroppatina (venti metri, non di più) e un passaggio lungo. Un paio di questi passaggi finirono tra i piedi del pargolo che, grazie alla complicità involontaria dell'altro portiere, Leonardo, detto Leo, disabile e simpaticissimo fumatore accanito, segnò due gol. Come accade in questi casi, quando il campetto si trova al centro di un gruppo di palazzi, dopo un po' arrivarono altri ragazzini che chiedevano di giocare. A quel punto, dopo quaranta minuti divertenti, Francesco e io pensammo di aver dato il massimo e ci ritirammo con onore. Aver giocato col figlio/figlioccio è un momento importante per un calciatore perché gli da la misura di quanto sia vecchio. Tuttavia, il giorno dopo, in classe, mentre fingevo di non avere un immenso dolore alla schiena, accadde l'imponderabile. Mi si avvicina l'alunno che mi aveva invitato, quello devastato dall'acne, e mi fa:"Prof., noi sapevamo che era bravo, ma non (che fosse - ndr) così forte!". Sono piccole soddisfazioni. Bravo ragazzo, devastato ma bravo. Promosso di sicuro....
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