Non mi ero lasciato bene con il calcio. Due anni fa, prima di partire per il confino, avevo giocato un'ultima partita di calcetto. Mi sentivo grasso e pesante ed era bastata una finta perché il piede si piantasse e una fitta al ginocchio mi ricordasse la non più verde età. Maledetto lardo e maledetto me che ne avevo consentito l'accumulo. Comunque sia, quello sembrava il minore dei problemi. C'era uno studio legale da chiudere e da organizzare in modo che fosse gestibile da mille chilometri di distanza, c'era un nuovo lavoro da imparare e che non avevo mai fatto prima e c'era un'intera logistica da inventare: un classico salto nel buio. Non mi mancava il calcio, ma non perché avessi una vita frenetica e piena, bensì perché nella mia nuova città le occasioni di fare altri sport non mancavano. C'era il lavoro in palestra con i miei alunni disabili, lo sport integrato il martedì e la piscina. C'era anche stato un tentativo per capire se ci fossero altri attempati grassoni come me che avessero voglia di fare una partitella ogni tanto, ma la proposta era stata inquietante. Un gruppo di napoletani aveva si messo su una squadra, ma ero stato avvertito che le partite erano dure e che più d'uno ci aveva lasciato ossa e legamenti. Pazienza, ne avrei fatto a meno. Nemmeno d'estate, nella pausa dal lavoro, ero riuscito a trovare un'occasione. Per motivi imperscrutabili, però, avevo deciso di portare con me al nord le scarpette con i tacchetti, che avevo usato per l'ultima volta sul campetto di S. Lucia. Forse, pensavo, avrei trovato modo di usarle: hai visto mai. Quindi avevo smesso di pensarci, quando, inaspettata arrivò la chiamata dei miei vecchi amici scout di Marghera. "Calcetto al palazzetto". Così si chiamava l'evento FB organizzato in uno sperduto paesino veneto da li a due mesi. Aggiunsi un "mi piace" in automatico e comunicai che avrei partecipato più per affetto che per reale convinzione. Poi il giorno arrivò, misi davvero le scarpe nella borsa e via: 150 chilometri di incoscienza pura. Il campetto faceva parte di una struttura bellissima, ben oltre gli standard cui sono abituato. Era enorme, con tanto di gradinate, al coperto, meravigliosa. Arrivai in ritardo, la partita era già cominciata. Entrai a freddo e subito mi ritrovai per terra. Avevo sottovalutato il fondo, cui le mie scarpette non si adattavano. Mi dissero di bagnarle un po' su uno straccetto umido appositamente predisposto. Ovviamente ero l'unico che non lo sapeva e l'unico che non lo aveva usato. Pensai: "Grasso e sprovveduto, riprenditi o farai la figura del peracottaro". Entrai in campo con nuova convinzione e un ritrovato equilibrio. "Fai quello che sai, concentrati" questo il mio mantra. Quindi cominciai a far correre il pallone di prima, pulito, senza inutili dribbling, per i quali, comunque, occorre un fiato che non avevo. Per fortuna c'era chi correva anche per me e io non dovevo fare altro che smistare. Il pallone andava e veniva che era una bellezza e un paio di azioni strapparono persino l'applauso degli sparuti spettatori. Il pallone è davvero un linguaggio universale e io un po' lo parlo. Finita la partita mi sentivo stanco, ma contento. Sapevo cosa mi aspettava il giorno dopo: sofferenza e dolore, ma non mi importava. A cena mangiai di gusto e poi mi rimisi in macchina per tornare a casa. Il giorno dopo un buontempone pubblicò le foto della partita, quella che si vede di sotto, e vi dirò, anche se tutto ciò che appare è un grassone in blu, con la coppola, piegato dalla fatica e dalla mancanza di fiato - beh - quel grassone sul campo fa ancora la sua porca figura ed era pronto al suo secondo step: la partita con i suoi studenti.
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