Non importa che tipo di giocatore sei stato. Se hai calcato i campi di calcio devi, ripeto, devi essere rimasto coinvolto almeno una volta in una rissa. Ci pensavo l'altro giorno, colpito dalle notizie provenienti da un campetto di Mugnano, in provincia di Napoli. Mentre guardavo le immagini del Tg in cui giocatori e tifosi se le suonavano di santa ragione ho avuto un curioso dejavu. Mi è tornata alla memoria una partita di più di dieci anni fa, giocata, come al solito, su di uno sperduto campetto della provincia salernitana. Era un campo "a undici" in terra battuta, con un fondo duro come la pietra e con la giusta quantità di brecciolino sparso sapientemente, ma aveva dimensioni regolari, la recinzione e tre spogliatoi decenti, per le squadre e l'arbitro. Tutto intorno solo campi coltivati e una montagna a fare ombra. Non era una partita amichevole, ma di campionato, o meglio, della Joy Cup. Joy in inglese significa gioia, ma in realtà la coppa della gioia era una presa in giro poiché durante il torneo tutte le squadre (eccetto la nostra) schieravano formazioni raccogliticce e mezze calzette, ma se raggiungevano la finale si presentavano con ex professionisti o piccoli fenomeni mai visti prima e puntualmente vincevano. Noi, invece, schieravamo sempre gli stessi, anche in finale, e io tra quelli. Si giocava il sabato pomeriggio e qualche volta si faticava a trovare gli undici da far scendere in campo. Quel sabato non era diverso dagli altri. Avevamo raggiunto il campo e avevamo fatto il così detto "riconoscimento". L'arbitro, cioè, era entrato negli spogliatoi e aveva controllato le identità e il numero di maglia di ciascuno di noi. Conoscevamo bene quell'arbitro. Lievemente antipatico, presuntuoso e malato di protagonismo, apparteneva alle schiere degli arbitri della UISP i quali, non me ne vogliano, sono da sempre considerati una "sottomarca", una imitazione degli arbitri veri, quelli della Federazione Italiana Gioco Calcio. Lo ammetto: il mio è un pregiudizio razzista, tuttavia questi arbitri hanno l'enorme merito di consentire lo svolgimento di tornei di bassa lega quali appunto il Joy Cup e almeno questo glielo riconosco. La partita iniziò in orario e gli avversari pensarono bene di intimidirci da subito con qualche fallo di troppo. L'arbitro era impostato in "modalità british", ovvero dal suo punto di vista stava arbitrando il match con lo stile di un arbitro inglese, che considera il calcio uno sport duro, non certo per signorine. Noi, invece, pensavamo che stesse avallando un massacro, sorvolando colpevolmente su falli plateali che mettevano a rischio caviglie e ginocchia. Neanche a dirlo, gli avversari si sentirono incoraggiati ad alzare il livello della guerriglia, mentre l'arbitro guardava noi femminucce con regale distacco. Ad un certo punto successe il fattaccio: il nostro centravanti, un ragazzone di uno e novanta, ingegnere civile, padre di famiglia e buono come il pane decise di reagire con uno spintone all'ennesimo fallo cattivo. Il marrano difensore, caduto a terra senza conseguenze fisiche, si senti ferito nell'orgoglio e il fratello del suddetto marrano, che giocava nella stessa squadra, decise che si trattava di una questione di famiglia, un'onta da lavare con il sangue e si accanì a sua volta sul mio amico. Volò qualche ceffone tra i tre prima che accorressimo a dividerli. Il resto della loro squadra sembrava predisposto alla rissa, pugni alzati e atteggiamento minaccioso, ma non successe niente perché non accettammo provocazioni. Rimanemmo calmi, a mani alzate, con un sorriso incredulo stampato in faccia, continuando a ripetere come un mantra la stessa frase ad alta voce:"È solo una partita di pallone, calma!". Eravamo in una situazione di stallo e non sapevamo cosa fare quando ci accorgemmo che mancava qualcuno:l'arbitro!. Il custode del campo ci disse di averlo visto correre verso il suo spogliatoio al primo accenno di violenza. Che fosse ancora li? Ci avvicinammo con cautela alla porta chiusa dello spogliatoio e ci rendemmo conto che l'arbitro si era barricato all'interno. Ci disse che non aveva nessuna intenzione di uscire, almeno fino a quando non fosse arrivata la "forza pubblica" che lui aveva prontamente chiamato con il suo cellulare. Non sembrava spaventato: dava più l'impressione del pubblico ufficiale eroicamente impegnato a fare il suo dovere fino alle estreme conseguenze e non ci fu verso di farlo uscire dallo spogliatoio, facendogli presente che ormai il pericolo era passato. Trascorsi alcuni minuti imbarazzanti, all'orizzonte comparve un ormai raro esemplare di Fiat Uno blu. Sulle fiancate la scritta Polizia Urbana. La Uno si fermò davanti agli spogliatoi e ne uscì un signore anziano, alto, segaligno, con grossi baffi bianchi, in divisa da vigile urbano. Era evidente che per una partita di livello infimo come la nostra avevano raschiato il fondo del barile della così detta "forza pubblica", mandando a sedare la rissa un vigile urbano (uno di quelli che De Sica definisce con condiscendenza "metropolitani"), probabilmente più vicino al fine vita che alla pensione e, quindi, sacrificabile al pari della sua Uno d'epoca. In ogni caso il vigile pretese spiegazioni e noi dovemmo abbozzare, chiarendo che non era successo niente di particolare, che uno scontro di gioco era degenerato, ma che tutto era rientrato quasi subito e che forse l'arbitro aveva esagerato un po'. Mentre eravamo intenti a fornire spiegazioni al vigile ecco che la porta dello spogliatoio si aprì e ne uscì l'arbitro, ancora con indosso la divisa nera e le scarpette con i tacchetti. Senza nemmeno un fiato, veloce come un giaguaro, corse verso la propria auto, ci si infilò dentro con tutto il borsone e partì sgommando in una nuvola di fumo. Ci guardammo in faccia, tutti, compagni avversari e vigile, con la stessa espressione basita. Non era necessario dire altro. Ciascuno raccolse le proprie cose e si allontanò mestamente verso casa, in silenzio. Persino la federazione decise di non prendere provvedimenti disciplinari: meglio sorvolare.
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