sabato 27 giugno 2015

L'allenatore

Eccomi qua, dopo sette giorni, ancora con un dolore lancinante alla schiena che non accenna a diminuire. La colpa è mia. Ho accettato di giocare l'ennesima partita di calcetto, ma l'ho fatto con un impegno molto superiore a quello che il mio stato di forma consentirebbe. Il fatto è che lunedì alla partita è venuto anche Danilo. Danilo non è solo una persona fisica, un bel giocatore e un amico: è un allenatore nato. Da sempre, sia che ci giochi contro, sia che ci giochi a fianco, imposta e dirige il gioco con l'esempio e la parola. Ti dice cosa devi fare, come devi farla e quando e poiché la superiorità calcistica che dimostra è evidente, ti senti spronato a dare di più, a seguire le sue indicazioni a cercarne il consenso. Per questo ti sforzi di tornare in difesa più di quanto non ti capiti di solito, cerchi di rimanere concentrato e di non fare passaggi avventati, di non azzardare il solito dribbling che da anni ormai non ti riesce, ma che continui a provare ostinatamente nelle partitelle tra amici. La partita è stata tirata, inutile sottolinearlo e al termine avevo la magnifica impressione di aver fatto una sana faticata, anche se ho perso. Pensavo di essere l'unico ad aver provato queste sensazioni. Poi ho chiamato Andrea ed ho scoperto che anche lui si era sentito talmente responsabilizzato dalla presenza di Danilo in campo, che se lo era sognato anche la notte, svegliandosi distrutto dalla fatica e contratto. Gli allenatori fanno questo effetto e non solo nel calcio. Li riconosci perché emanano carisma e competenza e ti senti spronato naturalmente a dare il meglio, a dispetto delle conseguenze. Ce ne sono pochi, però, di allenatori in campo, sempre meno, e anche se la mia schiena non è d'accordo, è davvero un peccato.

giovedì 1 gennaio 2015

Il primo amore

Per chi è cresciuto a "pane e calcio" negli anni '70 il miraggio è sempre stato indossare un paio di scarpette con i tacchetti. Erano scarpe nere, severe e potevano essere di due tipi: quelle con 15 tacchetti di plastica, per i campi in terra battuta, e quelle con soli sei tacchetti, di metallo, per i campi in erba. Costose entrambe, quelle da sei erano riservate ai professionisti, o a quelli bravini che si esibivano la domenica su campi amatoriali, ma con un certo seguito. La scarpa da calcio non era considerata un accessorio essenziale nel corredo di un ragazzino, in quegli anni, nemmeno il completino da calcio, e spesso occorreva attendere che un cugino ricco, ma anche un vicino di casa, dismettesse le scarpe da pallone del figlio per poterne avere un paio. Tra tutte le scarpette, sicuramente quelle più innovative e in voga a cavallo degli anni '70/'80 erano le Tepa Sport. Nere come le altre, avevano però una caratteristica che le rendeva particolari, una striscia bianca a forma di "V" sul dorso. Antesignana dello "Swoosh" caratteristico della Nike, la scarpetta Tepa Sport era indossata da pochi professionisti della serie A italiana, che cominciavano soltanto ad intuire quali vantaggi potesse dar loro una seria sponsorizzazione. Fa sorridere pensare a quanto ingenui fossero i miei campioni di allora, convinti a posare per il fotografo indossando quelle scarpette in cambio di qualche paia gratis. D'altra parte erano i tempi in cui il Vicenza di Rossi veniva squalificato per aver esibito sulle maglie un minuscolo logo...
Fedele all'andazzo dell'epoca io acquistai le mie prime scarpette da calcio a 14 anni, ad una fiera che si tiene a Salerno ogni anno. Un tempo riservata agli attrezzi agricoli, la fiera del Crocifisso si tiene tutti i venerdì del mese di maggio. Si vendeva di tutto, dal bestiame vivo ai piatti, dalle chicaglierie alle musicassette di contrabbando e anche scarpe. Quell'anno la fiera si teneva in un quartiere popolare di Salerno, Mariconda, cioè vicino casa mia e questo mi consentiva di andare a farmi un giro quando mi pareva. Comprai un paio di cassette, mia mamma dei piatti e poi le vidi. Splendide e sorridenti sulla bancarella mi guardavano come se fossi loro predestinato. Non avevo soldi con me e tornai a casa con quella immagine impressa negli occhi. Tornai varie volte alla bancarella quel giorno e credo che il venditore se ne sia accorto. Non ricordo nemmeno se ci fossero altre scarpette: a me piacevano quelle. Trovai il coraggio di chiedere se avessero il 42 e il venditore mi disse di si. Non ricordo il prezzo, ma era un prezzo da fiera, particolarmente vantaggioso. Tornai per l'ennesima volta a casa e ne parlai con i miei. Li trovai stranamente ben disposti a quell'acquisto, forse perché il prezzo era davvero contenuto o forse perché non sono mai stato un bambino petulante e capriccioso. Chiedevo raramente e nemmeno in modo diretto. Quindi mi accontentarono e mi diedero i soldi necessari. Feci la strada di corsa e comprai le mie Tepa con una certa trepidazione. Mi furono date nella confezione e quando la aprii a casa avevano un meraviglioso odore di cuoio, di nuovo. Le provai e mi andavano perfette. Da allora e per qualche anno furono le mie inseparabili compagne di gioco sui polverosi campetti in terra battuta di Salerno. Tuttavia, l'occasione di indossarle sarebbe venuta più avanti e troppa era la voglia di metterle ai piedi subito. Così, senza sapere che stavo facendo la cosa giusta, cominciai a metterle anche in casa, con la scusa di dare loro la "forma". Sapevo, infatti, che se le avessi messe direttamente sul campo mi sarebbero venute le vesciche ai piedi, proprio in corrispondenza dei tacchetti. Per questo i campioni della serie A le facevano ammorbidire riempiendole di acqua calda. Se solo ci penso oggi mie viene da ridere. Penso a Ronaldo che riempie d'acqua calda le sue scarpe...
Anche mia nonna intervenne nella discussione. Disse che il cuoio andava ammorbidito e curato con la "sugna", il grasso di maiale che le usava per cucinare, e seguii il saggio consiglio. 
Quindi per qualche mese, fino al mio "esordio" sul campetto di Torre Angellara, ogni giorno per un paio d'ore indossavo le mie scarpette in casa, con grande scorno di mia madre, poi le riponevo, dopo averle ingrassate a dovere. Il risultato fu che la prima volta che le misi sul campo mi calzavano come un guanto, perfette e non diedero mai problemi di vesciche.
Come tutte le cose belle, tuttavia, anche il mio sodalizio con le Tepa Sport finì. La scarpetta destra, sollecitata da anni di calci eroici, cedette, e la suola si staccò. Feci anche un ingenuo tentativo di ricucirla, ma, appena le indossai, la cucitura si aprì di nuovo. I tacchetti consumati, la suola staccata, le mie Tepa scongiuravano il pensionamento e io, a malincuore, dovetti cedere.
Da allora in poi solo storie senza significato, niente di serio, nulla di paragonabile al mio primo grande amore.
Poi ieri sera un miracolo, un amico mi chiama e mi propone un impegno serio, settimanale, con la sua squadra su campo a 11. Dico di si, ma le mie scarpette sono logore e vanno pensionate. Quindi distrattamente digito "Tepa Sport" su Google e mi appaiono di nuovo loro, nuove fiammanti, in vendita su Ebay ad un prezzo da fiera. Unica misura disponibile il 42: la mia!

Le ho ordinate...



domenica 20 aprile 2014

La palla è rotonda

Era sera, era tardi, era estate. Mi trovavo a Salerno, in piazza Malta, con altri amici. Ero giovane, frequentavo il liceo e mi piaceva il calcio. Quella sera avevamo tempo da perdere e un "Super Santos" per passare il tempo facendo "due passaggi" in allegria. Si parlava tra di noi del più e del meno, si facevano battute oscene e si rideva per nulla. Non c'era altra anima viva. Ad un certo punto il pallone sfuggì e andò a finire in mezzo alla strada. Un'auto si materializzò all'improvviso e ci passo sopra. Il mio amico Danilo guardo il pallone sconsolato e disse a tutti noi:"Ecco, adesso con quel pallone non possiamo più giocare!". Ma il Super Santos passò miracolosamente sotto la macchina e tornò indietro verso di noi. Il mio amico Pasquale lo riprese e lo fece vedere a Danilo:"Ma no, non si è bucato - disse - si è solo un po' ovalizzato!". E Danilo:" Appunto...". Per anni ho ripensato con ammirazione a quella risposta. Per un vero giocatore l'attrezzo è importante e un pallone ovalizzato non gli consentirebbe di esprimersi al meglio. 
Oggi non la penso più così. Oggi so che un vero giocatore si vede proprio quando l'attrezzo non è perfetto, quando il campo è irregolare e il fondo un insieme di buche e ciuffi d'erba. Il vero giocatore è quello che traccia traiettorie precise anche con un pallone da rugby, che stoppa la palla anche su una pietraia, che si adatta ai suoi compagni e ne esalta le capacità, anche quando sono delle vere schiappe. 
Come cambiano le prospettive a quarant'anni...


giovedì 17 aprile 2014

Mo devi azzeppare il fischietto per terra

È una delle frasi sentite sui campi di calcio che che mi ha colpito di più. Non fu soltanto la frase, ma anche il contesto, ovviamente. Mi ricordo che era sera e si giocava su un campetto a sette tra i più umidi di Salerno, quello di Canalone, un nome un programma. Quella sera non ero in campo, ma solo spettatore. Le squadre avevano un completino rispettivamente rosso e blu e io ero seduto sugli spalti insieme ad un pubblico discretamente numeroso. Era la partita di un torneo, con tanto di arbitro, ed era abbastanza "tirata". Ad un certo punto l'arbitro fischiò un fallo a favore dei rossi e alzò il braccio. I blu si fermarono in attesa della ripresa del gioco mentre i rossi batterono a sorpresa verso un loro compagno, solo davanti al portiere, e fu goal. I rossi esultavano, i blu si guardavano tra loro increduli e attoniti. Il capitano dei blu si scosse e comincio a protestare con l'arbitro, una sottomarca UISP, che sembrò da subito irremovibile. Piantato ben saldo sul terreno, a gambe aperte, l'uomo in nero affrontava senza paura il diluvio di improperi che lo investiva. Circondato da tutta la squadra blu come l'Ariete ad El Alamein, combatteva indomito, fermo nelle sue convinzioni. Il goal era valido, i blu si erano comportati da polli, che colpa poteva mai avere lui? Eppure la protesta continuava e lui sembrava godersela tutta, probabilmente pregustando il momento in cui avrebbe raccontato l'episodio al bar con gli amici per fare il figo, o in sezione (o comunque si chiami la sezione degli arbitri UISP) con i colleghi. Lui solo, novello Leonida, fronteggiava i blu come i barbari alle Termopili, al punto che sugli spalti cominciavamo a simpatizzare per quel piccolo calimero, scoglio tra i marosi. Qualcuno, esagerando - c'è sempre uno che esagera - lo proponeva come esempio di forza morale da additare alle giovani generazioni e se la protesta fosse andata avanti ancora a lungo ci sarebbe stato sicuramente qualcuno che lo avrebbe proposto per presidenza del consiglio o che avrebbe dato il suo nome al proprio figlio. Ad un certo punto, però, accadde l'imprevedibile. Il capitano dei blu, un vecchio scarpone per nulla intenzionato a farsi prendere per il naso, si girò verso i suoi e li allontanò, poi tornò dall'arbitro, gli mise la mano sulla spalla e cominciò a ricostruire i fatti, ad alta voce, rivolto verso gli spalti. "Fammi capire - esordì contenendo a stento la rabbia - tu cosa hai fischiato? Un fallo?" L'arbitro annuì con l'espressione di chi non capisce cosa vuoi da lui e così pensammo anche noi sulle tribune, sorpresi dalla piega che stava prendendo la situazione. "E poi? - continuò imperterrito il capitano, a voce lievemente più alta - lo hai alzato il braccio?" L'arbitro spazientito guardò il capitano e rispose sicuro: "si" e tutti noi con lui, solidali senza riserve con quell'uomo ingiustamente sotto processo. In realtà il capitano sapeva bene dove stava andando a parare. Aveva portato l'arbitro, completamente ignaro, sull'orlo del precipizio e ce lo spinse, e noi con lui. "E quando alzi il braccio che cosa significa? - disse a voce altissima, in un crescendo wagneriano -". E l'arbitro, arrabbiato e spazientito:"Significa che la punizione è di seconda e.....cazzo!! - disse l'arbitro - "cazzo!!" pensammo tutti noi sugli spalti. Finalmente avevamo realizzato cosa era successo. L'arbitro aveva fischiato un fallo e aveva alzato il braccio. Quindi la punizione era di seconda e il gioco avrebbe potuto riprendere solo dopo il fischio dell'arbitro. Invece il gioco era ripreso senza il fischio: il goal era irregolare. Nel silenzio imbarazzato dell'arbitro e di noi tutti il capitano chiosò: "E mo sai che dovresti fare? - guardò l'arbitro come il boia con la vittima sul patibolo - dovresti azzeppare il fischietto per terra e andare!!". Poi prese il pallone, lo rimise al centro e intimò: "E mo jucamm!". Aveva avuto soddisfazione e non avrebbe nemmeno insistito per l'annullamento del goal. Uno spettacolo fantastico. Dagli spalti partì un'ovazione. Eravamo tutti - noi popolo bue,  vigliacchi voltagabbana - di nuovo dalla parte del capitano e qualcuno, esagerando - perché qualcuno che esagera c'è sempre - urlò che avrebbe dato al proprio figlio il suo nome. La partita continuò, ma, sinceramente, nessuno ricorda il risultato. 


martedì 15 aprile 2014

Il mio piede sinistro

Il talento è innato, il talento è pigrizia. Chi ha talento non lo allena, al massimo lo affina. Il talento compensa: sai fare talmente bene una cosa che ti chiedono di andare un campo per fare solo quella. Noi vecchi scarponi, abituati ai polverosi campetti di periferia, di talento siamo privi e non abbiamo alternativa, dobbiamo lavorare duro. Occorrerebbe trascorrere lunghe ore di noiosi allenamenti con la palla, ma non ne abbiamo il tempo, non è il nostro lavoro e toglierebbe gioia al nostro approccio alla partita. Come fare dunque? Il mio metodo è giocare ogni tanto una partita intera col sinistro. Mi spiego meglio. Come tutti i calciatori per diletto io ho un solo piede: il destro. Tiro, passo, stoppo la palla con il destro e il sinistro lo uso, come si dice in gergo, solo per salire sul tram. Ma quanta soddisfazione mi da quel raro passaggio, quel dribbling, quel tiro a rete di sinistro. Talvolta mi capita di fare una partita tra amici, di quelle senza particolare mordente, defaticanti, quelle in cui potresti giocare a memoria perché sai d'abitudine come giocheranno i tuoi soliti avversari. Ecco, è in queste partite che scelgo di giocare, talvolta, come se il mio piede preferito fosse il sinistro. Certo, sbaglio e magari faccio qualche figuraccia, ma ho notato che il mio piede sinistro "ricorda" sempre qualcosina di ciò che ha imparato e lo tira fuori d'istinto, quando meno te lo aspetti, come se avesse volontà propria, anche a distanza di tanto tempo. È capitato che una volta a S. Lucia mi stupisse alzando un pallone sotto la traversa con una finta leggera oppure che al Maria Rosa sulla litoranea effettuasse un preciso rilancio di controbalzo - al punto che il mio compagno di reparto mi chiese se fossi "sinistro" - oppure, ancora, quando capita che prenda l'iniziativa e si assuma il compito del passaggio largo a sinistra, morbido, elegante, come piace a me. Voglio bene al mio piede sinistro e sono fiero di lui quando ha di queste fiammate. Ma gli voglio bene anche quando sostiene il peso del corpo e consente al "fratello buono" di esibirsi, quando si sacrifica e duole, quando si pianta veloce, per evitare che la mia malandata caviglia destra si pieghi troppo e si spezzi. Dovrei giocare più spesso col sinistro, anche nella vita, usando quello che in me non funziona troppo bene. Dovrei allenare la mia poca pazienza e la mia scarsissima tolleranza e ridurre lo spazio che riservo al mio enorme ego destrorso. Dovrei far scendere in campo, almeno per un tempo, la chiarezza di idee, la capacità di pianificare, la costanza. Si perché sono queste le qualità che mi sorreggono quando mi incasino, quando sono in ritardo, quando procrastinare diventa una regola pericolosa, ma non sono la mia migliore qualità. Allora penso a cosa succederebbe se mi affidassi al mio "piede sinistro" con più frequenza o, semplicemente, con maggiore equilibrio. Forse capirei, finalmente, persino qual è la vera passione di Ciccio...

sabato 29 marzo 2014

I figli sono tutti belli

Per Nicolas Cage i suoi film sono come figli, tutti ugualmente importanti, tutti belli. Per Sofia Loren tutti i figli devono avere lo stesso cognome: Soriano. Per quanto mi riguarda tutti i goal che ho segnato hanno lo stesso valore, sono tutti belli, tutti importanti. Per questo li coccolo nella mia memoria, li ripasso, li rivedo, li accarezzo quasi. Sono tutti belli, anche se per motivi diversi: quello segnato con i Falquus perché fu il primo fuori dal condominio, quello al volo il primo giorno a Torre Angellara perché stabilì un principio e quello ugualmente spettacolare, sempre a Torre, perché suggellò la fine di una rincorsa di due anni. Bello il goal a S. Domenico perché ne scartai cinque prima di segnare e belli quelli del torneo di Giovi, di testa e in rovesciata (non voluta, ma è un'altra storia). Bello il goal di S. Croce, in mezza rovesciata, al volo, all'ultimo minuto e bello quello al torneo universitario, d'astuzia, su punizione, ma senza "chiedere la distanza" della barriera. Bellissimo il goal di S. Lucia, di sinistro con finta decisa in un microsecondo, con palla in alto a sinistra e portiere in basso a destra. Non ne ho segnati molti, anzi, ho preferito sempre l'assist, ma non per generosità: per paura di sbagliare. Quindi posso ricordarli meglio e li metto tutti sullo stesso piano. Però, c'è un però. Lo so che non vale, lo so che un genitore non dovrebbe farlo, ma c'è n'è uno a cui voglio più bene. Uno piccolino, insignificante e lontano, ma è il mio preferito. Avevamo fatto sega a scuola (sciopero, filone, fate voi) ed eravamo andati a casa di Fabio, un amico che non c'è più. Sotto casa di Fabio c'era e c'è ancora un campetto di pallavolo in cemento, ma senza la rete. Agli estremi del campetto due panchine. Quindi, per noi maniaci del pallone, quello divenne un perfetto campetto per sfide "due contro due", senza portiere e con le panchine a far da porta. Inutile specificare che segnare in una porta di un metro di larghezza per cinquanta centimetri di altezza era complicato, se ci fosse stato anche il portiere sarebbe stato quasi impossibile. Le "squadre" erano due: due ragazzini di dodici anni o giù di lì da una parte, Aldo (altro mio compagno di liceo) e io, poco più che quindicenni, dall'altra. I nostri avversari erano un po' intimiditi. Eravamo più grandi di età e avevamo qualche centimetro di più, in altezza. Tuttavia quello che li impressionava maggiormente era la "tecnica superiore" che io è il mio compagno ostentavamo. Sia come sia i giochetti col pallone possono essere belli a vedersi, ma se non segni sono inutili e l'avversario si sente incoraggiato e ci prova a sua volta. Infatti, il risultato rimaneva inchiodato sullo zero a zero perché ogni volta che ci avvicinavamo alla loro porta uno dei due si metteva davanti alla panchina, rendendo vano ogni tentativo di segnare. Ad un tratto Aldo si intestardì in un dribbling e si ritrovò da solo, con alle spalle la ringhiera e davanti entrambi gli avversari. Io, invece, ero da solo, ma davanti alla loro porta. Risultato: se Aldo avesse perso palla, come era probabile, quei piccoli bastardelli avrebbero potuto segnare indisturbati: una vera tragedia. E mentre già mi vedevo perso, vidi Aldo colpire la palla con un leggero, ma deciso, "colpo sotto". La palla si impennò in un fazzoletto e superò entrambi gli avversari, giungendo a me con buona forza. Non ebbi tempo di stoppare. Potevo fare solo una cosa: portai i pugni al petto e caricai il collo all'indietro. Poi ruotai il torso di scatto e colpii di testa, verso il basso. La palla si infilò precisa sotto la panchina, ma con tale forza che continuò a rimbalzare impazzita su e giù per qualche secondo. Goal. Ero sorpreso, ma feci la faccia di quello che queste cose le fa normalmente. Aldo abbozzò guardandomi come se avessi fatto la cosa più naturale del mondo. I nostri avversari rimasero interdetti. Presero il pallone (un Super Santos d'ordinanza) e provarono a ricominciare, ma si vedeva che erano assai abbattuti. Dopo un po' smisero di giocare e se ne andarono con la coda tra le gambe. 
Un goal degno di un cartone animato giapponese, capace di stroncare il morale della squadra avversaria. Il mio bambino preferito, senza dubbio.

giovedì 27 marzo 2014

La rissa

Non importa che tipo di giocatore sei stato. Se hai calcato i campi di calcio devi, ripeto, devi essere rimasto coinvolto almeno una volta in una rissa. Ci pensavo l'altro giorno, colpito dalle notizie provenienti da un campetto di Mugnano, in provincia di Napoli. Mentre guardavo le immagini del Tg in cui giocatori e tifosi se le suonavano di santa ragione ho avuto un curioso dejavu. Mi è tornata alla memoria una partita di più di dieci anni fa, giocata, come al solito, su di uno sperduto campetto della provincia salernitana. Era un campo "a undici" in terra battuta, con un fondo duro come la pietra e con la giusta quantità di brecciolino sparso sapientemente, ma aveva dimensioni regolari, la recinzione e tre spogliatoi decenti, per le squadre e l'arbitro. Tutto intorno solo campi coltivati e una montagna a fare ombra. Non era una partita amichevole, ma di campionato, o meglio, della Joy Cup. Joy in inglese significa gioia, ma in realtà la coppa della gioia era una presa in giro poiché durante il torneo tutte le squadre (eccetto la nostra) schieravano formazioni raccogliticce e mezze calzette, ma se raggiungevano la finale si presentavano con ex professionisti o piccoli fenomeni mai visti prima e puntualmente vincevano. Noi, invece, schieravamo sempre gli stessi, anche in finale, e io tra quelli. Si giocava il sabato pomeriggio e qualche volta si faticava a trovare gli undici da far scendere in campo. Quel sabato non era diverso dagli altri. Avevamo raggiunto il campo e avevamo fatto il così detto "riconoscimento". L'arbitro, cioè, era entrato negli spogliatoi e aveva controllato le identità e il numero di maglia di ciascuno di noi. Conoscevamo bene quell'arbitro. Lievemente antipatico, presuntuoso e malato di protagonismo, apparteneva alle schiere degli arbitri della UISP i quali, non me ne vogliano, sono da sempre considerati una "sottomarca", una imitazione degli arbitri veri, quelli della Federazione Italiana Gioco Calcio. Lo ammetto: il mio è un pregiudizio razzista, tuttavia questi arbitri hanno l'enorme merito di consentire lo svolgimento di tornei di bassa lega quali appunto il Joy Cup e almeno questo glielo riconosco. La partita iniziò in orario e gli avversari pensarono bene di intimidirci da subito con qualche fallo di troppo. L'arbitro era impostato in "modalità british", ovvero dal suo punto di vista stava arbitrando il match con lo stile di un arbitro inglese, che considera il calcio uno sport duro, non certo per signorine. Noi, invece, pensavamo che stesse avallando un massacro, sorvolando colpevolmente su falli plateali che mettevano a rischio caviglie e ginocchia. Neanche a dirlo, gli avversari si sentirono incoraggiati ad alzare il livello della guerriglia, mentre l'arbitro guardava noi femminucce con regale distacco. Ad un certo punto successe il fattaccio: il nostro centravanti, un ragazzone di uno e novanta, ingegnere civile, padre di famiglia e buono come il pane decise di reagire con uno spintone all'ennesimo fallo cattivo. Il marrano difensore, caduto a terra senza conseguenze fisiche, si senti ferito nell'orgoglio e il fratello del suddetto marrano, che giocava nella stessa squadra, decise che si trattava di una questione di famiglia, un'onta da lavare con il sangue e si accanì a sua volta sul mio amico. Volò qualche ceffone tra i tre prima che accorressimo a dividerli. Il resto della loro squadra sembrava predisposto alla rissa, pugni alzati e atteggiamento minaccioso, ma non successe niente perché non accettammo provocazioni. Rimanemmo calmi, a mani alzate, con un sorriso incredulo stampato in faccia, continuando a ripetere come un mantra la stessa frase ad alta voce:"È solo una partita di pallone, calma!". Eravamo in una situazione di stallo e non sapevamo cosa fare quando ci accorgemmo che mancava qualcuno:l'arbitro!. Il custode del campo ci disse di averlo visto correre verso il suo spogliatoio al primo accenno di violenza. Che fosse ancora li? Ci avvicinammo con cautela alla porta chiusa dello spogliatoio e ci rendemmo conto che l'arbitro si era barricato all'interno. Ci disse che non aveva nessuna intenzione di uscire, almeno fino a quando non fosse arrivata la "forza pubblica" che lui aveva prontamente chiamato con il suo cellulare. Non sembrava spaventato: dava più l'impressione del pubblico ufficiale eroicamente impegnato a fare il suo dovere fino alle estreme conseguenze e non ci fu verso di farlo uscire dallo spogliatoio, facendogli presente che ormai il pericolo era passato. Trascorsi alcuni minuti imbarazzanti, all'orizzonte comparve un ormai raro esemplare di Fiat Uno blu. Sulle fiancate la scritta Polizia Urbana. La Uno si fermò davanti agli spogliatoi e ne uscì un signore anziano, alto, segaligno, con grossi baffi bianchi, in divisa da vigile urbano. Era evidente che per una partita di livello infimo come la nostra avevano raschiato il fondo del barile della così detta "forza pubblica", mandando a sedare la rissa un vigile urbano (uno di quelli che De Sica definisce con condiscendenza "metropolitani"), probabilmente più vicino al fine vita che alla pensione e, quindi, sacrificabile al pari della sua Uno d'epoca. In ogni caso il vigile pretese spiegazioni e noi dovemmo abbozzare, chiarendo che non era successo niente di particolare, che uno scontro di gioco era degenerato, ma che tutto era rientrato quasi subito e che forse l'arbitro aveva esagerato un po'. Mentre eravamo intenti a fornire spiegazioni al vigile ecco che la porta dello spogliatoio si aprì e ne uscì l'arbitro, ancora con indosso la divisa nera e le scarpette con i tacchetti. Senza nemmeno un fiato, veloce come un giaguaro, corse verso la propria auto, ci si infilò dentro con tutto il borsone e partì sgommando in una nuvola di fumo. Ci guardammo in faccia, tutti, compagni avversari e vigile, con la stessa espressione basita. Non era necessario dire altro. Ciascuno raccolse le proprie cose e si allontanò mestamente verso casa, in silenzio. Persino la federazione decise di non prendere provvedimenti disciplinari: meglio sorvolare.